mercoledì, agosto 22, 2007

Parlare di un problema come l’assenza di libertá di manifestazione di pensiero e di stampa in una nazione, puó nascondere una grossa insidia: quella di cadere nella retorica. E purtroppo, ultimamente, i temi che siamo costretti ad affrontare sul blog, si rincorrono: droga e minacce ai giornalisti, intervallate da talora tristi, talora piú piacevoli notizie.

Ma se anche un’organizzazione come Amnesty International, lasciando da parte le polemiche di questi giorni legate alla svolta “abortista” e l’International Federation of Journalist (che rappresenta piú di 600mila giornalisti in 114 paesi), prendono posizione chiedendo al governo della Guinea Bissau di assicurare l’incolumitá ad attivisti e operatori dei media che trattano il traffico di droga nello Stato, allora siamo autorizzati a pensare che non tutto quello che avviene in Guinea possa essere definito “democratico”.

Accertato questo, come poter rendere produttivo il nostro sdegno, la nostra preoccupazione, la nostra incapacitá di comprendere una situazione del genere? A cosa puó servire concretamente sollevare il nostro grido di rabbia e assieme di timore? Serve davvero aggiornare costantemente sulle intimidazioni, le censure e i rischi vissuti da vari uomini in Guinea Bissau?

E’ una domanda retorica: la parola rassegnazione nel nostro vocabolario non é contemplata, dunque non smettermo mai di interessarci della sorte e delle iniziative a favore di Yéro Embalo, Alberto Dabo, Eva Maria Auzenda Biague, Fernando Jorge Perreira e Mario Sa Gomes.

Ci scuserete l’eventuale mancanza di originalitá dei post, ma non possiamo non affrontare una delle problematiche, la cui risoluzione potrebbe determinare un grosso passo avanti democratico per l’intera nazione.
Per concludere questa riflessione, vorrei riprendere delle parole di Robert Fisk, un giornalista e scrittore impegnato spesso sul fronte di guerra, che sull’informazione e sul ruolo del reporter ha un’idea ben precisa:

Forse non scriveremo le prime bozze della storia, ma spesso ne siamo i primi testimoni. E credo che il lavoro di un giornalista dovrebbe essere proprio questo: scoprire la veritá dei fatti – o arrivarci quanto piú vicino possibile in un mondo imperfetto – e poi pubblicarla in modo che nessuno possa mai dire:
“NON LO SAPEVAMO, NON CE L’AVEVANO DETTO”.